ARTICOLO "IL LICEO CLASSICO E' DENTRO L'ALGORITMO"
Nell'epoca in cui l'apparato tecnico dispiega la propria potenza come se fosse la forma definitiva del mondo, la domanda sul senso del liceo classico sembra appartenere a un tempo ormai remoto. Che significato può avere declinare verbi greci quando gli algoritmi scrivono testi, compongono musica, diagnosticano malattie? Che rilevanza hanno le tragedie di Eschilo quando l'intelligenza artificiale promette di risolvere problemi che l'umanità non è mai riuscita ad affrontare?
Eppure è proprio quando tutto appare consegnato alla velocità del calcolo e alla perfezione dell'algoritmo che diventa necessario interrogare ciò da cui questa potenza proviene. La tecnica non nasce dal nulla: la sua forza è l'eredità trasformata di una lunghissima storia. E la tradizione che il liceo classico custodisce non è un deposito di memorie polverose, non è nostalgia per un mondo perduto, ma la struttura stessa attraverso cui l'Occidente ha pensato il reale prima che la tecnica ne assumesse il governo.
Chi crede che il liceo classico sia il luogo della resistenza al progresso, dell'opposizione tra antico e moderno, tra cultura umanistica e cultura scientifica, non ha ancora compreso la posta in gioco. La forma moderna del mondo non è l'opposto della tradizione: ne è il compimento. L'idea che il vero debba essere ciò che può essere previsto, misurato, dominato, ordinato, non è un'invenzione dell'informatica o dell'intelligenza artificiale; è il nucleo originario da cui l'Occidente è sorto. Quando Platone pensa l'essere come idea, quando Aristotele definisce la sostanza, quando la matematica greca cerca la forma immutabile dietro il divenire delle cose, lì già si prepara la possibilità della tecnica moderna. L'apparato tecnico non elimina questa origine: ne è la figura più avanzata, la realizzazione più radicale.
Ma proprio per questo, esso tende a dimenticare ciò che lo precede. E in questa dimenticanza rischia di confondere la propria efficacia con la propria verità, il proprio funzionare con il proprio significato. Quando uno studente di ingegneria informatica progetta un algoritmo di machine learning, sta compiendo un'operazione che ha radici nei concetti di forma, materia, universale, particolare elaborati nel pensiero greco. Ma se non conosce queste radici, se non vede la continuità tra Aristotele e il codice che sta scrivendo, rischia di credere che la potenza operativa della tecnica sia autosufficiente, che non abbia bisogno di interrogarsi sul proprio senso.
Il liceo classico non serve a frenare l'apparato, né a ostacolare il progresso. Non celebra la lentezza contro la velocità, non oppone alla logica delle macchine una fragile umanità nostalgica. Serve a mostrare, nel cuore stesso della potenza tecnica, l'origine che essa non può cancellare. Serve a impedire che la tecnica perda il rapporto con ciò che la rende possibile. Serve affinché la civiltà che domina il mondo attraverso gli algoritmi non diventi prigioniera inconsapevole del proprio stesso dominio.
Consideriamo un esempio concreto. Quando ChatGPT genera un testo, lo fa attraverso probabilità statistiche, correlazioni tra miliardi di dati. Ma che cos'è il linguaggio che viene così manipolato? Qual è la sua origine? Come si è costituito quel rapporto tra parola e cosa, tra segno e significato, che la macchina elabora senza comprenderlo? Queste domande non sono ornamenti culturali: sono la condizione per capire cosa stiamo realmente costruendo. E chi ha letto Platone sa che il problema del rapporto tra nome e cosa, tra linguaggio e verità, è stato posto con una radicalità che nessun manuale di programmazione può eguagliare. Non si tratta di scegliere tra il Cratilo e Python: si tratta di comprendere che Python opera all'interno di un orizzonte di senso che il Cratilo ha contribuito a dischiudere.
Non è allora un confronto tra antichità e innovazione, né tra lingue morte e linguaggi di programmazione. Il punto essenziale è la tensione: la tensione tra la tecnica che avanza verso una crescente potenza operativa e la tradizione che ricorda il significato da cui quella potenza scaturisce. Una civiltà che non vede più questa tensione crede che il futuro sia solo accelerazione, e che il passato sia solo peso da rimuovere. Ma la tradizione non è il passato: è la forma profonda dell'origine. È ciò che permane attraverso tutte le trasformazioni, ciò che rende intelligibile il presente proprio perché ne mostra la provenienza.
Quando un ragazzo di sedici anni traduce un passo di Tucidide, non sta semplicemente imparando una lingua morta. Sta imparando a vedere come il pensiero si articola, come la sintassi rispecchia il modo in cui una civiltà organizza il reale, come ogni scelta lessicale porta con sé un intero mondo di significati. Sta imparando che tra lui e quello scrittore di duemilacinquecento anni fa c'è continuità, non abisso. E questa continuità è esattamente ciò che la tecnica contemporanea, nella sua pretesa di novità assoluta, tende a oscurare.
Ed è solo nella consapevolezza dell'origine che la tecnica può davvero comprendere cosa sta diventando. Senza questa consapevolezza, il potere tecnico diventa cieco a se stesso. Diventa, paradossalmente, meno potente proprio nel momento della sua massima espansione, perché perde la capacità di orientarsi, di distinguere tra ciò che è possibile fare e ciò che ha senso fare.
Il liceo classico ha senso oggi proprio perché non pretende di stare fuori dal presente, di opporre al mondo digitale un rifugio umanistico. Esso non celebra la bellezza di ciò che è stato: mostra la necessità di ciò da cui tutto proviene. Interroga la struttura stessa del pensiero che ha reso possibile tanto Omero quanto l'algoritmo, tanto la tragedia greca quanto l'intelligenza artificiale. E in questa interrogazione rivela che la potenza della tecnica non può bastare a se stessa: ha bisogno del luogo in cui la propria origine ritorna ad essere evidente, in cui il proprio fondamento non viene dato per scontato ma continuamente ripensato.
Studiare ciò che l'Occidente è stato significa comprendere ciò che l'Occidente è, e dunque anche ciò che può diventare. La tradizione non limita l'apparato tecnologico; gli restituisce il suo destino, cioè la possibilità di non essere solo forza cieca ma espressione consapevole di una civiltà che conosce se stessa. Una civiltà che non riconosce più questo rapporto diventa prigioniera del proprio produrre, incapace di distinguere il progresso dall'autodistruzione.
Il liceo classico esiste perché questa identità tra potenza e senso non diventi ovvia, scontata, e dunque incontrollabile. Esso offre non un sapere alternativo alla tecnica, ma lo spazio in cui si può vedere la continuità profonda tra il pensare e il costruire, tra il comprendere e il programmare, tra l'origine greca del logos e la forma estrema che quell'origine ha assunto nell'algoritmo contemporaneo.
Per questo, nell'età delle macchine che imparano, si rivela con forza inaspettata la frase che Eschilo affida alla più antica sapienza dell'Occidente: τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷ — la tecnica è di gran lunga più debole della necessità. Non perché la necessità vinca sulla tecnica, non perché la tecnica debba essere limitata o temuta. Ma perché la necessità la precede, la fonda, le dà senso. E il liceo classico è il luogo in cui questa precedenza continua a brillare, in cui l'origine non è un passato morto ma una presenza che interroga ogni presente, anche il più radicalmente nuovo.
Chi studia oggi al liceo classico non volge le spalle al futuro. Al contrario: prepara le condizioni perché il futuro non sia solo un accumulo cieco di potenza, ma il dispiegamento consapevole di ciò che siamo. E in un'epoca in cui l'intelligenza artificiale comincia a riprodurre funzioni che credevamo esclusivamente umane, questa consapevolezza non è mai stata così necessaria.
Pubblicato il 13-12-2025





